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Confraternita Santa Croce
(a Boves, Via Roma)

 
LE ORIGINI DELLA CONFRATERNITA     (parte 1)
 
Sulle origini della Confraternita  dei  Disciplinati di Santa Croce non esistono dati probanti ma soltanto tardivi documenti che si rifanno ad una tradizione che, per quanto incerta, per alcuni secoli fu largamente diffusa e acriticamente accettata dalla generalità dei bovesani. Lo confermano in particolare due iscrizioni su lapidi marmoree ed il primo articolo dello Statuto –regolamento approvato e pubblicato nel 1910.
La prima lapide fatta incidere nel 1777 e collocata sulla facciata della vecchia chiesa di Santa Croce, iniziava con la seguente perentoria affermazione:
“Hoc templum Sancte Crucis ab anno 1015 erectum……(Questa chiesa di Santa Croce, eretta fin dall’anno 1015…
La lapide purtroppo è andata persa in seguito alla rovina della chiesa situata in prossimità del giardino dell’Ospedale in via Castello di  Godego, ed è stata sostituita nel 1888 da un’altra, collocata all’interno della nuova chiesa in corrispondenza dell’entrata laterale in via Statuto. Anche questa iscrizione, in lingua latina, nella parte iniziale riconferma l’antica tradizione, anticipando la data di ulteriori dieci anni. Ed  infine il primo articolo dello statuto del 1910 recita testualmente: “Fin dal 1011, come dice la tradizione, data l’esistenza della Confraternita dei Disciplinanti, sotto il titolo di Santa Croce, e nel 1015 già aveva una chiesa propria come risulta da un’iscrizione antica”.
Quest’ultimo documento, anche se scritto in  data relativamente recente, ha il merito di liberare il campo da possibili confusioni e di offrire un primo elemento di chiarezza su cui impostare le successive considerazioni sulla data di nascita della Confraternita. In esso infatti si distingue la data di fondazione della Confraternita (anno 1011) da quella della costruzione o scelta della chiesa di  Santa Croce come  sede e luogo di incontro dei confratelli (anno 1015).
Anche se non si hanno elementi probanti, riesce piuttosto difficile escludere in modo assoluto che in quell’anno possa essere stata edificata in Boves una chiesetta dedicata alla venerazione della Santa Croce. Difatti l’undicesimo secolo viene storicamente indicato come periodo di preparazione alla grande avventura della prima crociata che nel 1089 trascinò un numeroso e caotico esercito cristiano in Palestina per la liberazione di quella terra dal dominio islamico. E non si può esclude a priori che questo movimento di mistico entusiasmo abbia anche percorso la nostra terra ed abbia spinto i fedeli bovesani ad erigere una modesta cappella dedicata alla Santa Croce di Cristo.
Dobbiamo invece escludere con assoluta sicurezza che nell’anno 1011 possa essere stata fondata  una “Confraternita di disciplinanti sotto il titolo di Santa Croce.
Difatti le ricerche storiche hanno confermato che la prima Confraternita di Disciplinanti venne fondata a Perugia nel 1260  e che soltanto nel 1336 venne eretta in Cuneo, ad iniziativa  dei frati francescani, la Confraternita o Congregazione dei Battuti sotto il titolo di Santa Croce. Dato che sarebbe piuttosto sorprendente che i frati francescani, stabilitisi a Cuneo, nel  1296, abbiano operato prima a  Boves e solo successivamente nella città che li ospitava, possiamo dedurne che la data di fondazione della Confraternita dei Disciplinanti di Boves va spostata in epoca successiva al 1336.
Si deve infatti ragionevolmente ipotizzare che soltanto col passare di alcuni decenni i frati francescani si siano adoperati per estendere la loro influenza nel circondario di Cuneo e naturalmente anche in Boves, dove nel quattrocento venne eretta quella cappella di San Francesco ancora esistente in prossimità di Madonna dei  Boschi.
L’erezione della cappella testimonia il diffondersi tra la nostra popolazione della venerazione del Santo della povertà che predicò e praticò l’imitazione del “Cristo nudo sulla nuda croce”. Ed è quasi sicuramente su questa realtà che si innestò  l’esigenza di istituire anche in Boves, promossa dai frati francescani cuneesi, una Confraternita di Disciplinanti di Santa Croce, analoga a quella già operante nella vicina città.
I dati richiamati e le considerazioni svolte seguono un filone logico difficilmente scalzabile e ci inducono a collocare il sorgere del primo embrione della nostra Confraternita nella seconda metà del secolo XV. Superato un periodo, per così dire, sperimentale che confermò il crescente interesse dei bovesani per questa nuova forma di associazionismo laico-religioso nei primi anni del 1500, i frati francescani adottassero uno Statuto-regolamento e che l’Associazione assumesse ufficialmente il nome di Confraternita dei Disciplinanti di Santa Croce.
Una tardiva ma autorevole conferma di questa nuova ipotesi ci viene da un documento conservativo nell’archivio parrocchiale e datata 6 dicembre 1845.
Si tratta di una annotazione casualmente scritta e firmata da Olivero Giuseppe, tesoriere della Confraternita che dice testualmente:  “La Compagnia dei Disciplinanti sotto il titolo di Santa Croce ha avuto principio nell’anno del Signore 1505, da quel che si è potuto vedere dai vecchi capitoli, i quali sono stati firmati sotto la data del 1506, sebbene siano ben logori”.  La stessa data, ricavata da un altro documento andato purtroppo smarrito, la ritroviamo in una relazione redatta il 1 luglio 1960 da don Giuseppe Baudino, ultimo cappellano di Santa Croce: il più antico registro contenente l’elenco dei Confratelli che esiste in archivio, porta nel frontespizio la seguente iscrizione: “La Compagnia dei Disciplinanti sotto il titolo di Santa Croce, ha avuto principio nell’anno del Signore 1505 da quel  che si è potuto vedere dai libri vecchi. Il detto registro, dopo i primi otto fogli di nominativi segnati senza alcuna data prosegue nell’elenco segnando i nominativi partendo dalla data dell’anno 1596.”
 
 
             1506: LO STATUTO DELLA CONFRATERNITA    (parte 2 )    
 
La  vita e l’organizzazione interna della Confraternita dei Disciplinati di Santa Croce
di Boves, erano regolate da una lunga serie di capitoli che costituivano un “corpus” unico, comunemente denominato Statuto-Regolamento. Lo Statuto originario era statuto approvato, come si è visto, nel 1506 e, salvo alcune modifiche e aggiunte, rimase valido fino al 1910, anno in cui il Consiglio della Confraternita “ha divisato di compilarne uno nuovo fondo sulle antiche pratiche lodevoli della Confraternita e adatto alle circostanze dei tempi”.
La pubblicazione a  stampa del nuovo Statuto determinò il  trascurato abbandono dell’unica copia dei capitoli originali, oggi non avremmo più alcuna traccia se non fossero stati, fortunatamente presi in considerazione ed in parte riassunti dal Mottini (libro: “Memorie storiche di Boves”).
Le notizie riferite dal Mottini si sono rivelate più importanti del previsto perché, messe a confronto con un recente studio del Prof. Piero Camilla, mi hanno riservato la piacevole sorpresa di constatare che gli Statuti della Confraternita di Boves ricalcano fedelmente i capitoli della Fraternità dei Disciplinati di Cuneo.
 (Piero Camilla : “L’ospedale di Cuneo nei secoli XIV-XVI. Contributo alla ricerca  sul Movimento dei Disciplinanti. Società Studi Storici n.13 pag. 201-288)
Il prof. Camilla si limita a mettere a confronto i Capitoli che regolavano le Confraternite di Cuneo, Fossano e Busca, ma conclude che “il testo fossanese è identico a quello buschese, letteralmente copiato a sua volta dai primitivi capitoli cuneesi”. I capitoli della Confraternita di Boves sono rimasti fuori dal suo esame, ma lo stesso autore lascia chiaramente intendere che quanto verificatosi a Fossano e Busca può essersi ripetuto in altre analoghe situazioni, (e quindi anche a  Boves), là dove afferma: “Gli statuti che le varie fraternità si danno, rimbalzano, senza sostanziali modifiche, partendo dalla prima fondazione, da un luogo all’altro, cronologicamente, a seconda del tempo in cui nei vari centri periferici viene a costituirsi una nuova Fraternità.”
Le citazioni del Mottini ed i recenti studi del Professor Camilla consentono pertanto di concludere, con documentata sicurezza, che la Confraternita bovesana adottò, alle sue origini, i capitoli della Confraternita dei Disciplinati di Santa Croce di  Cuneo. Pertanto siamo ora in condizione di riappropriarci di un importante documento che sembrava irrimediabilmente perso  e di riassumere le norme più significative che hanno regolato la vita della Confraternita dei Disciplinati di Santa Croce,  dei Disciplinati di Santa  Croce di Boves, nel periodo che intercorre tra il 1505 ed il 1910, anno della stesura del nuovo Statuto.
 
Si diventava soci della Confraternita all’età di diciotto anni: i ragazzi di età inferiore potevano tuttavia essere accolti in qualità di postulanti. La richiesta di ingresso veniva annunciata per tre domeniche consecutive all’Assemblea dei Confratelli in modo che “Se lo dicto che vole entrare in la dicta Casa fosse trovato per vera informazione no essere de bona e laudabile conversatione, o de mala vita, o usuraio, o rapinatore de la roba d’altrui, o de altro manifesto peccato, no sia ricevuto ma gli sia dicto che prima restituisca l’altrui, e che emende sua vita, e poi sarà ricevuto, e non altramente”.
Passato al vaglio di questo primo esame, al richiedente venivano letti i capitoli dello statuto perché fosse pienamente consapevole dei doveri e degli obblighi che si assumeva entrando a far parte della Confraternita. Soltanto dopo questi preliminari si procedeva alla cerimonia della vestizione alla  quale il postulante doveva presentarsi con la divisa o cappa della Confraternita e con un cero acceso. (Probabilmente la cappa aveva forma di una mantellina  con cappuccio. La divisa definitiva, costituita da un lungo camice bianco e da un cordone di uguale colore, verrà adottata soltanto
nel 1722).
I confratelli dovevano rispetto ed obbedienza al Rettore e agli otto consiglieri che essi, con libere  elezioni, si sceglievano ogni sei mesi. Riuniti in assemblea, dopo una breve preghiera individuale, ciascun confratello si alzava dal proprio posto e, segretamente, indicava al Rettore in carica il nome del suo successore. Sentite tutte le espressioni di voto “lo rettore antico prende a croxe in ginogione e la presenta a lo rettore nuovo, o en loco de la croxe se po’ etiandio presentare uno brandone acceso. Alhora quelli che sanno cantare e lezere, comenzano a cantare Te Deum laudamus, e quelli che non lo sano dicano pater noster e ave Maria per fine che sia finito Te Deum laudamus”.
Con procedura analoga si passava all’elezione di otto consiglieri che, assieme al Rettore, costituivano il Consiglio della Confraternita. Il Consiglio procedeva alla scelta di due massari incaricati della normale gestione della Confraternita; di due tabulatori che tenevano in ordine l’elenco degli iscritti, di un portinaio addetto all’apertura e chiusura della chiesa-oratorio; di due visitatori incaricati di far visita ai confratelli ammalati per aiutarli finanziariamente se in misere condizioni economiche o, comunque, prepararli ad una buona morte, in pace con Dio e con il prossimo; di due vestitori di morti, che dovevano predisporre i funerali dei confratelli deceduti.
Di particolare rilevanza erano le incombenze assegnate ai massari l’incarico di tenere in ordine la chiesa, di accendere i lumi, di provvedere le candele e l’olio per le lampade, di preparare l’altare, custodire le cappe,  di ricevere, conservare e distribuire i fondi destinati alle elemosine disposte dal rettore. Essi dovevano inoltre custodire i sigilli, le bolle i privilegi e tutti i documenti della Confraternita rinchiusi in una cassa a due chiavi, una delle quali tenuta dal Rettore.
 
 
           1506: LO STATUTO DELLA CONFRATERNITA        (parte 3)             
 
Spettava naturalmente al Rettore la maggiore responsabilità del buon andamento della Confraternita e difatti lo statuto gli riconosceva “piena ed ampia possanza di correzere e punire li delinquenti o inobedienti ed cun imposizione di pene e de cazzare quelli che non se vorranno emendare o correzere”.
Sul Rettore incombeva il diritto-dovere di vigilare  sulla condotta morale e civile dei confratelli e di garantire che adempissero agli obblighi che si erano liberamente assunti entrando a fare parte della Confraternita. La condotta esterna doveva essere
irreprensibile o per lo meno tale da evitare un pubblico scandalo che si potesse ripercuotere negativamente sul buon nome dell’Associazione.
 Tra l’altro era severamente proibito frequentare le taverne e giocare ai dadi “o ad alcuno altro zugo illicito e bruto”. Nei limiti del possibile i confratelli dovevano evitare liti fra di loro e con estranei e, prima di adire a vie legali dovevano sottostare all’arbitrato di due o quattro probiviri scelti dal Rettore, “ per dare bono exemplo a tutti li altri, a zo che coloro che debbono seguitare lo evangelio di pace, non siamo principi a caxone de confusione e sectatori de discordia”.
Rigide e particolareggiate erano le norme che regolavano la vita interna della Confraternita disciplinata da una fitta serie di obblighi e di pratiche devozionali finalizzate alla crescita religiosa e morale dei singoli aderenti.
 Il confratello era tenuto ogni giorno a recitare cinque-pater-ave-gloria “a memoria delle cinque piaghe del nostro Signore Gesù Cristo”; due volte al mese doveva confessarsi e comunicarsi almeno quattro volte all’anno; tutte le domeniche e almeno tre volte nel corso della settimana doveva assistere  alla santa messa.
La domenica era giorno di assemblea alla quale nessun confratello poteva mancare, salvo giustificato motivo che andava comunicato direttamente al Rettore.
La prima parte dell’incontro prevedeva l’assistenza alla messa e la recita dell’Uffizio.
Successivamente il tabulatore procedeva ad un vero e proprio appello per rilevare le eventuali assenze. Seguiva  poi la raccolta dell’offerta che era obbligatoria per tutti: se qualcuno era talmente povero “che no potese fare la dicta offerta”, era autorizzato a prelevare una moneta da un’apposita cassetta nella quale il massaro doveva “metere
ogni domenica de li denari minuti”.
Se non erano programmate specifiche processioni nelle pubbliche vie si procedeva alla visitazione, vale a dire ad una sorta di confessione laica alla quale tutti dovevano sottostare a turno. I confratelli disponibili a sottostare alla visitazione uscivano dalla chiesa per consentire ai presenti, di riferire al Rettore eventuali notizie di trasgressione loro imputabili e divenute di pubblico dominio. Richiamati in chiesa i visitati venivano segretamente invitati dal Rettore a rispondere ad una serie di domande vertenti su “tute quelle cose che debbono fare quelli che sono della dicta Congregazione”.
L’ultima domenica di ogni mese e la notte del venerdì santo i confratelli “vestiti con le cape de la disciplina e cum la faccia coperta” dovevano partecipare alla processione penitenziale che si snodava nelle vie del paese, con tappe obbligate a tutte le chiese: “E andando a questa processione, quelli che sani li septe salmi penitenziali li debiano dir, o septe volto lo Miserere mei Deus; per lì quelli che no sano, dicano ventiquattro volte lo pater noster e altrettante volte la avemaria; e quelo che va apreso la croce lo deriere debiano portare una pietra in mano; e quando sono tuti intrati in alcuna cesia lo dicto fradello che è l’ultimo piche e faza segno cum la pietra chel sia sentito da tuti li altri, e alhra incomense zaschaduno a dire segretamente cinque pater noster e cinque volte avemaria; e finite queste orazione, quello primo che è preso a la croxe faza segno cum la pietra chel sia oduto, e adhunca tuti se levano e se parteno da quella cessia, e così se faza in zaschaduna cessia”
 (Questo testo  in italiano cinquecentesco è citato dal Mottini – pag. 49 - e viene stralciato dal XVI capitolo della Confraternita di S. Croce di Cuneo, a riprova della identità dei due Statuti)
 
A coronamento di una scelta di vita cadenzata dalla preghiera e da pratiche penitenziali, il confratello di santa Croce sapeva che avrebbe potuto affrontare serenamente la morte e garantirsi una sepoltura degna di un cristiano. Difatti lo Statuto, oltre a prevedere l’assistenza medica e le medicine per i confratelli più poveri, faceva obbligo ai “visitatori” di visitare almeno due volte i malati gravi per invitarli a confessarsi e a fare testamento, per evitare motivi di litigio tra gli eredi.
A morte avvenuta due vestitori provvedevano a  vestire il morto con la cappa ed il cordone, mettendogli le mani in croce e collocando nella destra il flagello della disciplina. Il trasporto della salma era affidato a quattro confratelli, scelti a turno nei quattro quartieri in cui era suddiviso il centro abitato di Boves. Altri quattro portavano ceri e “brandoni accesi” e almeno in quindici dovevano accompagnare la salma fino al cimitero.
 Da quanto si può dedurre dal trentesimo capitolo, i confratelli avevano diritto di essere sepolti nel sotterraneo della chiesa parrocchiale, privilegio concesso a pochi e che consentiva di evitare lo spiacevole destino di essere malamente rovesciati nelle fosse comuni del cimitero. A tutti erano successivamente garantite almeno una messa e particolari preghiere di suffragio.
 
 
                            1506-1594 L’ASSISTENZA AI POVERI                 (parte 4)
 
Come si può facilmente  desumere dalla lettura dello Statuto, la  Confraternita dei
Disciplinati di Santa Croce operava in un campo relativamente ristretto in quanto si proponeva di aiutare i suoi aderenti a vivere con coerenza le proprie convinzioni religiose nella consapevolezza che il destino dell’uomo è segnato dalla morte e dall’attesa del giudizio di Dio.
Grazie a questi limiti di azione, consapevolmente accettati e perseguiti, la Confraternita riuscì ad operare e ad affermarsi gradualmente, senza provocare contraccolpi e senza urtare la suscettibilità delle altre due Confratrie, del Santo Spirito e di Santa Brigida, che già erano presenti nella realtà bovesana.
Le notizie relative a queste due Confratrie, anche se piuttosto scarse e frammentarie, sono comunque sufficienti per lasciare supporre che avessero origini lontane e che si caratterizzassero come vere e proprie corporazioni di mestiere, legate in particolare all’arte della filatura della lana e della tessitura dei panni.
La Confratria del Santo Spirito era comunemente conosciuta come Confratria di Valgea, mentre quella di santa Brigida era anche chiamata Confratria di Valcarania. Oltre alla difesa degli interessi di categoria e a finalità di mutuo soccorso tra i soci aderenti, esse si proponevano anche un più esteso esercizio della carità cristiana. Difatti i pochi documenti superstiti confermano quanto su di esse ha scritto don Lorenzo Peirone sul libro “Storia popolare di Boves:  ”Esse ricevevano legati e donazioni. Ogni prima domenica del mese gli iscritti alla Confraternita raccoglievano tra di loro l’elemosina con cui provvedevano medico e medicine in caso di malattie dei poveri e facevano distribuzioni ai bisognosi che si sarebbero vergognati di andare a raccattare per le case”.
Queste loro particolari attività caritative andarono successivamente evolvendosi per adeguarsi alle cresciute esigenze della società civile, tanto è vero che fin dal 1600 l’autorità comunale delegò alle due Confratrie la gestione degli interventi socio sanitari rivolti a tutti i poveri del  Comune.
Le due Confratrie godevano di indiscusso prestigio che si evidenziava soprattutto in occasione delle pubbliche processioni di Pentecoste e del Corpus Domini, nelle quali i Priori sfilavano per le vie del paese affiancandosi al Vicario del Duca e ai  due sindaci del comune.
Naturalmente i Confratelli del Santo Spirito e di Santa Brigida erano fieramente orgogliosi di questo prestigio che si erano faticosamente conquistato ed è facile supporre che non fossero affatto disposti a lasciare troppo spazio agli ultimi arrivati.
E i Confratelli di Santa Croce non se la sentirono di mettersi in concorrenza sul terreno socio-sanitario con le altre Confratrie, ma preferirono limitarsi all’attività di formazione religiosa dei soci e alle pratiche devozionali, anche se, a norma del loro Statuto, avrebbero potuto promuovere la fondazione di un ospedale, in analogia con quanto già realizzato dalla Confraternita di Cuneo.
Alcuni documenti d’archivio lasciano chiaramente  intendere che, negli ultimi decenni del cinquecento, la confraternita pensò seriamente alla possibilità di mettere in piedi un ospedale, incoraggiata dal parroco don Giovanni Pellegrino.
Un documento datato 20 marzo 1594 conferma che i Confratelli di Santa Croce avevano provveduto ad organizzare un primo embrione di ospedale  in locali di fortuna che vennero visitati dal Vescovo di Mondovì nel corso di una sua Visita Pastorale.
Il Vescovo ne era rimasto favorevolmente impressionato ed invitò la Confraternita a vendere tutte le proprietà immobiliari  e a destinare le elemosine di un biennio per l’erezione di un vero e proprio ospedale. Ma ai confratelli mancò il coraggio necessario per un’impresa così rischiosa e il Vescovo lasciò cadere la proposta. Soltanto dopo due secoli si tornerà a parlare di un ospedale che verrà realizzato nel 1802 dalla Congregazione di Carità che, in base alle leggi allora vigenti, era una diretta emanazione del Comune e nulla aveva a che fare con le confraternite religiose.
 
 
                                                    IL SEICENTO: UN SECOLO DI CONTINUA ESPANSIONE      (parte 5)
 
A seguito del Concilio  di  Trento (1545-1563) la Chiesa, nell’intento di mettere ordine al suo interno e allo scopo di impedire il diffondersi dell’eresia protestante, operò una selezione tra le varie forme di associazionismo laico, ma la Confraternita di Santa Croce superò felicemente l’esame e nel 1608 venne aggregata all’Arciconfraternita  del Santissimo Crocifisso avente sede nella chiesa di San Marcello a Roma. Da allora essa cessò di chiamarsi Confraternita dei Disciplinati ed assunse la denominazione ufficiale di “Confraternita del Santo Crocifisso sotto il titolo di Santa Croce”, con autorizzazione a celebrare la propria festa titolare il tre maggio di ogni anno, giorno in cui la chiesa ricordava il ritrovamento e “ invenzione della Croce”. Con autorizzazione a celebrare la propria festa titolare il tre maggio di ogni anno, giorno in cui la Chiesa ricordava il ritrovamento e “invenzione” della Croce.
A partire da quella data i Confratelli dismisero la vecchia “cappa”, per vestire una nuova divisa, consistente in un camice rosso con cordone rosso, che mantennero fino al 1722.
Questo riconoscimento canonico contribuì a consolidare ed aumentare il prestigio di cui già godeva nell’ambito della nostra comunità. E difatti nel 1630 quando il Consiglio Comunale formulò il voto di solennizzare ogni anno la festa della Madonna della neve per prevenire il contagio della peste, la Confraternita di Santa Croce
venne ufficialmente invitata a partecipare alla processione votiva a fianco e a pari merito delle vecchie Confratrie del Santo Spirito e di santa Brigida.
Ma, al di là dei riconoscimenti ufficiali, numerosi documenti d’archivio testimoniano che la Confraternita aveva saputo conquistarsi la stima e la riconoscenza di tutti i bovesani, grazie alla disinteressata pratica di numerose “opere di misericordia”. In particolare un’epoca in cui i morti venivano normalmente portati in chiesa, senza
alcuna formalità, su un carretto trascinato dai familiari, i confratelli si erano assunto l’incombenza di presenziare e di accompagnare i funerali di tutti i bovesani che lo richiedevano limitandosi a esigere il rimborso del consumo delle candele da parte dei meno poveri. Questa forma esteriore di rispetto della dignità dei defunti non tardò a dare risultati pratici, rivelandosi, come valido strumento di proselitismo, tanto da indurre gli amministratori della Confraternita ad istituire nel suo interno la “Compagnia dei Cento”, eretta nell’anno 1700 “con lo scopo di alimentare la carità fraterna ed il suffragio vicendevole, mediante preghiere  e celebrazioni di sante messe in morte di ciascun iscritto”.
IL crescente interesse della popolazione bovesana per la Confraternita di S. Croce era rivolto anche alla sua attività caritativa che, con il trascorrere degli anni, non si riversava soltanto su confratelli poveri ma cominciava ad estendersi a tutti i cittadini bisognosi. Di conseguenza divennero sempre più numerosi coloro che, nelle loro disposizioni testamentarie, decidevano di affidare parte dei loro beni alla Confraternita per opere caritative. Il più antico testamento conservato in archivio porta la  data del 25 agosto 1592 e raccoglie le ultime novità del bovesano Gianone Toscano che lega alla “…veneranda Compagnia di Santa Croce giornate una e trabucchi 368 in regione di San Gregorio, con obbligo di dare in elemosina ai poveri, la settimana, due stare di ciceri e tre di segala di pane.
Un testamento analogo, datato 18 aprile 1653 redatto da don Gianone Dutto, istituiva erede universale la Confraternita, con l’obbligo di distribuire ogni anno ai poveri “sei emine di pane cotte e condite  e mine sette di segala di pane”.
Ai  consistenti lasciti si aggiungevano sempre più frequenti, tante piccole offerte, testimonianze di affetto e gratitudine nei confronti della confraternita.
Provenivano per lo più da persone povere, che non maneggiavano denaro e facevano le loro offerte in natura: filo, pezze di tela, camicie, cuffie e vestiti di lana, calze, grembiuli, fazzoletti copricapo, ecc., che una volta  l’anno venivano venduti in pubblico incanto, regolarmente annunciato dal banditore comunale.
Grazia alla costante influenza esercitata dai frati francescani, apostoli di povertà, va dato atto che i confratelli non indulsero mai alla tentazione di accumulare ricchezze.
I beni immobili oggetto di eredità venivano normalmente ceduti al Comune che si impegnava a corrispondere un censo annuo corrispondente all’interesse del loro valore,  oppure erano venduti a privati per poter far fronte alle spese necessarie per rendere più decorosa la loro chiesa e più suggestive le funzioni religiose.
La fine del seicento concludeva la prima fase  della storia della Confraternita, caratterizzata dal costante impegno per tradurre in pratica le forti convinzioni religiose che ne avevano determinata la nascita e che erano state fedelmente recepite nei capitoli dello statuto.
Con l’inizi del secolo successivo, questo cammino lineare e tutto in ascesa, verrà improvvisamente turbato e fortemente condizionato da avvenimenti esterni assolutamente imprevedibili e, in quanto tali destinati a provocare un profondo disorientamento all’interno della Confraternita.
 
 
1719: LE CONSORELLE UMILIATE        (parte 6)
 
Il 19 maggio 1717 il Duca  Vittorio Amedeo di Savoia, nell’intento di avviare un processo di modernizzazione del suo Stato, emanò un editto sulla “Mendicità sbandita” con il quale investiva direttamente i comuni del compito di assistenza ai poveri e di cura degli ammalati, fino ad allora demandato alle parrocchie e alle Confraternite religiose.
Il decreto prevedeva che i singoli comuni istituissero un ospedale per la cura degli ammalati poveri o almeno una Congregazione di Carità avente per scopo di “educare tutti i poveri mendicanti del luogo, dar loro la sussistenza necessaria per vivere e così,  da oziosi e inutili a se stessi e gravosi al pubblico, renderli virtuosi o giovevoli a sovvenire le loro famiglie vergognose”.
Quattro anni dopo, e precisamente il 2 marzo 1721, il Consiglio comunale di Boves, in applicazione del decreto e considerata l’impossibilità di dare vita  ad un vero e proprio ospedale, deliberava di istituire la Congregazione di Carità. Il provvedimento del Consiglio comunale ratificava di fatto la soppressione delle Confratrie di Santa Brigida e del Santo Spirito ed il trasferimento del loro patrimonio alla istituente Congregazione di Carità, perché potesse continuare l’attività “elemosineria” fin ad allora esplicata dalle due Confratrie. Il fatto che l’Amministrazione Comunale abbia tardato quattro anni prima di dare applicazione al decreto locale sta a dimostrare che vi erano valide ragioni per temere una vera e propria turbativa dell’ordine pubblico.
La popolazione non vedeva di buon occhio la soppressione delle due benemerite
Confratrie e fu necessario uno sforzo di fantasia  per trovare soluzioni atte a rendere meno traumatico l’avvenimento.
I Confratelli del Santo Spirito vennero invitati ad aggregarsi alla Vecchia Chiesa parrocchiale di Valgea e grazie all’appoggio delle autorità civili e religiose, già nel 1719 riuscirono a fondare la nuova Confraternita della Santissima Trinità, con uno Statuto nel quale divenne preminente la finalità religiosa-devozionale riservando
l’attività caritativa e assistenziale alla raccolta di offerte destinate all’opera di “affrancamento e di redenzione degli schiavi. La nuova Confraternita venne autorizzata a vestire il camice rosso analogo a quello dei confratelli di Santa Croce.  Questi ultimi, per evitare spiacevoli confusioni adottarono immediatamente il camice bianco con cordone bianco che mantennero fino ai giorni nostri. Più complessa fu invece la trasformazione della Confratria di Santa Brigida nella quale, l’elemento femminile era sempre stato prevalente. Quasi tutti i confratelli e le consorelle deciso di confluire nella Confraternita di Santa Croce, sopravvissuta al decreto del 1717 per il suo carattere preminentemente religioso-devozionale.
 Le donne tuttavia condizionarono il loro ingresso nella Confraternita di Santa Croce al mantenimento di quella autonomia dal gruppo degli uomini che era loro sempre stata ampiamente riconosciuta nell’ambito della Confratria di Santa Brigida.  E perché tale autonomia  apparisse negli rimarcata anche esternamente chiesero di poter vestire l’abito giallo delle sorelle umiliate. Il Vescovo di Mondovì con decreto del
1 maggio 1719 concesse l’autorizzazione a vestire la divisa ma respinse le loro richieste di autonomia con un successivo provvedimento del 27 ottobre stabilì che le sorelle Umiliate dovevano considerarsi parte integrante della Confraternita  di Santa Croce e rispettarne rigorosamente lo Statuto. Con il loro inserimento il numero degli iscritti alla Confraternita lievitò a quasi trecento, un numero talmente alto da creare serie difficoltà per il normale svolgimento delle riunioni e delle funzioni religiose- devozionali, all’interno della piccola Chiesa della Confraternita situata, come si ricorda, nelle vicinanze dell’attuale Via Castello di Godego. Ma gli inconvenienti vennero superati grazie all’iniziativa delle sorelle Umiliare che si rivolsero direttamente all’Amministrazione Comunale chiedendo  che venisse messo a loro disposizione un locale adeguato alle loro esigenze devozionali. 
 
 
 
1719-1762: LA CHIESA DELLE UMILIATE        (parte 7)        
 
L’Episodio è documentato da un Ordinato del Comune in data 21 dicembre 1719, che si trascrive nella parte dispositiva:
“Davanti al Consiglio ordinario della Comunità è comparsa la Signora Agnese moglie del Signor Tomaso Giordano, come priora della Venerabile Compagnia delle Umiliate di questo luogo, unitamente con altre sorelle di detta compagnia, quali rappresentano al consiglio, non avere detta compagnia alcuna chiesa propria per congregarsi, onde pregano il Consiglio, vederle rimettere la Chiesa ossia fabbrica detta dell’Oratorio, al presente solo consistente nelle muraglie e semplice coperto esistente in questo luogo, nella Contrada del Ricetto, offrendosi a nome ditte le sorelle di detta Compagnia a pregare Sua Divina Maestà per la conservazione e bene di tutto questo pubblico. Il Consiglio, sentita detta richiesta aderendo volentieri all’aumento della devozione e culto divino, ha rimesso e rimette per quanto spetta alla presente Comunità la suddetta chiesa ossia fabbrica dell’Oratorio, si è come si trova, alla suddetta venerabile Compagnia  delle  Umiliate, con autorità alla medesima di quella fabbrica e perfezionare conforme più li piacerà con ciò però che detta chiesa  non debba servire per altro salvo per oratorio ossia chiesa di detta Compagnia delle Umiliate”.
L’oratorio di San Francesco concesso alle sorelle Umiliate si trovava nell’area del Ricetto, davanti alla chiesa di San Giovanni Battista detta anche “Chiesa del Marchese” in quanto soggetta al patronato dei marchesi   Grimaldi di Boglio, investiti del feudo di Boves.
L’oratorio consisteva in una specie  di grosso capannone  con una sola porta di ingresso privo di volta e protetto da un rudimentale tetto a capriata. Il suo intento era pressoché spoglio, certamente privo di altare e, forse con un ingombrante statua
in pietra raffigurante S. Francesco d’Assisi.
Tuttavia l’impegno delle consorelle Umiliate e una serie di fortunosi fatti successivi finiranno per trasformare questa malandata costruzione nell’attuale pregevole chiesa della Confraternita  di Santa Croce, comunemente conosciuta come la “Crusò”.
Numerosi documenti d’archivio testimoniano che le Umiliate si misero subito al lavoro per rendere più accogliente e funzionale la sede della loro Compagnia. Difatti già nell’agosto del 1720, dopo aver ottenuto dal Consiglio Comunale un contributo
di venticinque lire, procedettero alla costruzione della volta dell’Oratorio e ad una generale pulitura interna. Negli anni 1726 e 1742 acquistarono due piccoli appezzamenti di terreno dietro l’oratorio per facilitare lo svolgimento delle funzioni penitenziali attorno al perimetro della costruzione.
 
In data imprecisata venne costruito un artistico altare in legno per la celebrazione  delle messe. Nel 1736 venne costruito l’altare della Vergine Addolorata e negli anni 1761-62 chiesta ed ottenuta l’autorizzazione a celebrare la Via Crucis, furono collocati i quadri delle singole stazioni sulle pareti perimetrali dell’oratorio che andava sempre più assumendo l’aspetto di una vera e propria chiesa.
A completare l’opera mancava soltanto il campanile e le consorelle si diedero da fare finché trovarono un benefattore disposto ad accollarsi la spesa per la costruzione.
Il Consiglio della Confraternita, sia pure con scarso entusiasmo, espresse il proprio parere favorevole e verso la fine del 1762 un bel campanile, snello ed elegante, svettava sopra l’oratorio delle Umiliate. A fronte di questa sorprendente intraprendenza delle Umiliate, i confratelli negli ultimi quarant’anni, (come attestano le numerose polemiche sul colore del camice e sul diritto di compresenza ai funerali e alle processioni), avevano preferito spendere le loro migliori energie nella difesa di privilegi e prerogative che ritenevano insidiate all’esterno della Confraternita della Santissima Trinità. L’Attivismo delle Umiliate  li infastidiva ma lo ritenevano un fuoco di paglia, convinti come erano, che le donne sarebbero presto ritornate ad accettare il loro tradizionale ruolo subalterno e avrebbero smesso di dare fastidio. Ma la costruzione del campanile fece suonare il campanello d’allarme e, finalmente, i Confratelli si resero conto che, se non riprendevano l’iniziativa, le sorelle Umiliate avrebbero finito per organizzarsi in una associazione autonoma, con grave pregiudizio per l’unità ed il prestigio della Confraternita di Santa Croce.
 
 
 
1789: LE UMILIATE OSPITANO I CONFRATELLI    (parte 8)
 
Tutte queste considerazioni sfociarono nella decisione di abbattere la vecchia chiesa e di utilizzare la stessa area per edificarne una nuova, più ampia e funzionale. Il progetto redatto dall’ingegnere Pio Eula venne sottoposta  all’approvazione della Curia Vescovile e del Consiglio Comunale nell’estate del 1761 e, finalmente, una sentenza del Regio Senato di Torino consentì di dare inizio ai lavori che vennero affidati con regolare appalto, all’impresa Domenico Bernascone di Robilante. La vecchia chiesa venne demolita ed il 31 luglio del 1768 si procedette alla cerimonia della posa e benedizione della prima pietra. E per sottolineare il radicato inserimento nella tradizione religiosa non si scelse una pietra qualsiasi, ma la si andò a cercare nelle vicinanze del molino sottano, là dove erano ancora visibili  le fondamenta della chiesa di Santo Stefano che era stata la prima parrocchiale della Comunità bovesana.
Purtroppo non è stato possibile rintracciare il progetto esecutivo ma doveva certamente trattarsi di un’opera imponente considerato il fatto che per fare fronte alle spese necessarie la Confraternita dovette alienare tutti i suoi beni immobili per un valore complessivo di 4154 lire e che i lavori di costruzione si protrassero per quasi dieci anni. Finalmente il 27 aprile del 1777 la chiesa venne solennemente “Inaugurata, benedetta ed ufficiata” dal pievano Don Francesco Antonio Baratta. A ricordare l’avvenimento che riempiva di legittimo orgoglio i confratelli, venne collocata una lapide in lingua latina che diceva testualmente: “Questo tempio di Santa Croce eretto nel 1015, rinnovato dalle fondamenta per iniziativa ed a spese dei Confratelli il 31 luglio 1768, venne ultimato e dedicato il giorno 27 aprile 1777”.
Ma la soddisfazione era destinata a durare poco tempo. Difatti le strutture della nuova chiesa cominciarono a dare segni di cedimento, nel giro di pochi mesi si aprirono qua e là delle vaste crepe e spaccature che ne consigliarono un frettoloso abbandono. L’impresario che aveva eseguito i  lavori venne chiamato in causa e si aprì una lunga controversia che terminò soltanto nel  1790  con la sua piena assoluzione. Il trascorrere degli anni completò l’opera di progressiva distruzione finché una disposizione comunale del 1808 ordinò la completa demolizione della chiesa. Possiamo solo in parte immaginare la costernazione dei Confratelli di fronte a questo fatto imprevisto: avevano profuso tutte le loro energie per la “maggior gloria di Dio” e per il prestigio della Confraternita e si ritrovavano ora a subire gli impietosi giudizi dei bovesani e, cosa che loro più bruciava, i poco cristiani commenti delle Consorelle Umiliate. Inoltre la stessa Confraternita di Santa Croce, rimasta priva della sede e di un oratorio per esercitarvi la disciplina, rischiava di entrare in una crisi irreversibile. E allora si rivolsero alle Consorelle Umiliate chiedendo loro di accoglierli nella loro chiesa del Ricetto. Ma esse tergiversavano e dimostravano chiaramente di non gradire una forma di convivenza che avrebbe finito per alimentare incomprensioni e conflitti limitativi della loro autonomia. Le trattative si protrassero per oltre un decennio e si conclusero nel 1789, quando venne sottoscritta una convenzione che regolava l’uso della chiesa e la ripartizione delle spese relative alla sua manutenzione.
A partire dal 28 dicembre 1789, giorno della firma della convenzione, il vecchio oratorio di San Francesco, divenne di fatto la nuova sede dei due rami, maschile e femminile, della Confraternita di Santa Croce e da allora la chiesa venne comunemente indicata col nome di “Crusò”.
 Come si è visto  le vicende legate all’ingresso delle consorelle Umiliate ed alla realizzazione  delle nuova chiesa hanno tenuto campo per tutta la durata del diciottesimo secolo, provocando tali e tanti contraccolpi da mettere a dura prova la capacità di tenuta della Confraternita di Santa Croce. Ma a conti fatti si deve  ammettere  che l’istituzione ha retto bene, tanto da riuscire a trasformare un lungo periodo di polemiche e di contrasti interni, in un autentico processo di maturazione e di crescita. Difatti la Confraternita, all’inizio  dell’ottocento, si ritrovava con una nuova Chiesa e poteva inoltre contare sull’apporto della Compagnia delle Umiliate, nell’ambito della quale la donna bovesana aveva finalmente trovato un suo solido ruolo di presenza religiosa organizzata. Pertanto, almeno in apparenza, esistevano tutte le premesse per un rilancio della sua presenza e della sua attività nell’ambito della comunità bovesana. Ma i ritmi della storia non erano più quelli del passato: è significativo il fatto che il lungo travaglio all’interno della Confraternita si fosse concluso nel 1789, vale a  dire in coincidenza con l’inizio di quella rivoluzione  francese che sancì il definitivo distacco dal medioevo ed avviò un progressivo processo di secolarizzazione della società civile.
 
 
L’OTTOCENTO      ( parte 9)
 
L’ondata di anticlericalismo che seguì alla rivoluzione francese e che si riacutizzò negli anni caldi del risorgimento nazionale determinò brusche reazioni nel mondo cattolico e, di conseguenza, anche nei soci della Confraternita, che finirono per arroccarsi su posizioni di difesa che tolsero respiro e slancio alle loro iniziative. Difatti, sfogliando i documenti d’archivio relativi al secolo scorso si rimane tristemente impressionati nel dover constatare un accentuarsi delle polemiche interne ed il verificarsi di alcuni fatti incresciosi che ne logorarono l’immagine esterna, evidenziando la tendenza a trasformarsi in una consorteria sempre più chiusa in se stessa, emarginata dalla società civile e, talvolta, anche da quella parrocchiale.
 I primi decenni dell’ottocento risultano ancora caratterizzati da perduranti difficoltà di convivenza in un’unica sede con le consorelle Umiliate. Significativa al riguardo è una lettera, che queste, nel 1806 inviarono al Vescovo di Mondovì, nella quale lamentavano come i confratelli che esse avevano ospitato nella loro chiesa:
”…per colmo di loro improntitudine e contro ogni giustizia, si fanno lecito di appropriarsi, trasportare e recidere li banchi, quadri, cangiar ordine agli altari, aprire finestre e fare altre novità contrarie alla convenzione…..inquietandole al punto che per qualche tempo han dovuto persino abbandonare la propria (sede) per radunarsi precariamente in altra chiesa, propria del marchese Grimaldi”.
La questione si protrasse fino al 1837 e ci volle tutta l’autorità del primo Vescovo di Cuneo Amedeo Bruno di Samone per fare accettare dalle parti, un onorevole compromesso in base al quale alle Umiliate veniva riconosciuta pari dignità ed ampia autonomia nell’ambito della Confraternita di Santa Croce. All’esterno, inoltre, il prestigio della Confraternita cominciava ad essere intaccato dalla perdurante polemica con i Confratelli della Santissima Trinità in merito ai diritti di sepoltura e dall’increscioso episodio legato alla cosiddetta “indemoniata di Boves”.
Alle origini l’accompagnamento dei morti era stato vissuto come un autentico valore cristiano, vale a dire come una manifestazione di rispetto dovuto a tutti i  bovesani indistintamente qualunque fosse la loro condizione sociale. Ma, col passare  del tempo, questa “opera di misericordia” si era gradualmente trasformata in un diritto da preservare anche per incrementare le entrate della Confraternita, per divenire infine un privilegio da difendere anche ricorrendo a quelle vie legali tassativamente vietate dal Regolamento. Esemplare in proposito rimane l’episodio verificatosi il 23 dicembre 1845, quando, per impedire che i fratelli della Santissima Trinità accompagnassero i funerali di una loro consorella, venne richiesto l’intervento della forza pubblica:
“Al mattino del funerale giunsero quattro carabinieri reali travestiti; il Signor Giudice, il Sindaco ed il vice Sindaco si degnarono di portarsi dove era il cadavere per conoscere chi fossero gli autori della perturbazione”.
Le vicende della “indemoniata di Boves” sono abbastanza note anche perché narrate  in una pubblicazione  a stampa del 1916. Si trattava di una filatrice bovesana, certa Giovanna Castigliano che all’età di tredici anni, sarebbe stata avvicinata “da una povera uggiosa vecchia che le porse un quarto di pomo che essa subito incautamente mise in bocca e trangugiò”. Da allora essa visse ossessionata dal demonio, tra sofferenze fisiche e spirituali, finché finalmente il giovedì santo del 1855, ad iniziativa dei familiari e col consenso della Confraternita, venne trascinata  davanti all’altare dell’Addolorata nella chiesa di Santa Croce. “La chiesa in breve tempo restò zeppa di gente che pregava la Santissima Vergine per impetrarne la grazia”.
E la grazia venne concessa, tanto che ad un tratto si vide il sacrestano che “levando il braccio quanto più poteva, mostrava a  tutti un quarto circa di pomo… Gli spiriti, dopo undici anni e venticinque giorni di possesso, erano dovuti uscire dal corpo di Giovanna”.
La pratica di esorcismo avvenuta ad iniziativa dei famigliari ed era stata patrocinata dalla Confraternita che l’aveva fatta precedere da una novena di preghiere: nessun sacerdote vi era rimasto coinvolto, anche perché  il parroco don Lobetti non aveva mai voluto prestare fede a “tale impostura”.
Tuttavia il fatto ebbe ampia risonanza, alimentata anche dalle polemiche dei liberali che chiamavano in causa il clero bovesano e lo accusavano di alimentare tra i fedeli la superstizione religiosa. Pertanto le conseguenze di un’iniziativa incresciosa e quantomeno discutibile, finirono per riversarsi su tutta la comunità parrocchiale, determinando uno stato di disagio che verrà superato solo dal provvidenziale arrivo in Boves del nuovo pievano don Giovanni Calandri nel 1864.
 
 
 
                                         L’OTTOCENTO     (parte 10)    
 
Tuttavia un esame sereno della vita e dell’attività della Confraternita di Santa Croce nel secolo scorso non può fermarsi esclusivamente su questi aspetti che evidenziano una caduta di tono delle più genuine motivazioni religiose e sociali che ne avevano caratterizzato le origini ed i primi tre secoli di vita.
I documenti d’archivio evidenziano infatti una costante ed ininterrotta preoccupazione di mantenere vivo nei confratelli e nelle consorelle l’impegno della preghiera individuale e della partecipazione alle pratiche devozionali comunitarie.
La presenza di un sacerdote venne continuamente garantita con l’assunzione di un cappellano fisso, al quale si affiancava saltuariamente un altro cappellano convenzionato  con le Umiliate. Le processioni esterne, avversate e messe in ridicolo dalla propaganda anticlericale, continuarono a svolgersi con regolarità e con un numero così grande di partecipanti che si dovette istituire la carica di “sergentino” della quale venne insignito un confratello incaricato di mantenere l’ordine e di evitare disdicevoli confusioni durante il percorso.
 ( da un documento del 1890 si calcola che i confratelli e le Umiliate in quell’anno sono usciti 41 volte in processione per le vie del paese)
 Particolare impegno venne profuso per rendere più solenne e suggestiva la celebrazione del giovedì santo, giorno rievocativo della passione di Gesù  Cristo.
E difatti fin dall’inizio del secolo andò consolidandosi la tradizione della lavanda dei piedi che si svolgeva davanti all’altare maggiore della chiesa della Confraternita immediatamente prima dell’affollata processione della Madonna Addolorata e del Gesù Rosso.
Ma l’aspetto che meglio caratterizza l’attività della Confraternita lungo tutto il secolo scorso va individuato nella volontà di trasformare la nuova sede nell’area del Ricetto in una chiesa funzionale alle esigenze interne, decorsa come luogo di culto e, nello stesso tempo, adeguatamente raccolta per l’esercizio delle pratiche devozionali.
I  lavori di sistemazione dell’originaria cappella-oratorio, avviati dalle consorelle Umiliate, si erano ininterrotte nel 1762 dopo l’erezione del campanile. I primi sintomi di ripresa si ebbero nel 1805 anno in cui, su disegno dell’architetto bovesano Bartolomeo Civalleri, venne avviata la costruzione di una tribuna, sovrastante la porta principale di ingresso, per consentire le riunioni del consiglio. Nel 1823 vennero realizzati sul lato ovest della chiesa, due vani sovrapposti affiancati da una scala di accesso al piano superiore: il vano a piano terra fu adibito a sacrestia e quello al primo piano divenne sala di adunanze. Rimasta disponibile la tribuna, i confratelli  deliberarono nel 1833 di sistemarvi “un organo a undici registri, con mantice a pompa”, scontrandosi però con la netta opposizione alle Umiliate. Soltanto dopo cinque anni di laboriose trattative, nel corso delle quali il giudice della locale pretura  arrivò ad “inibire la Chiesa ai Confratelli”, l’organo poté essere sistemato sulla tribuna e regolarmente collaudato il 7 luglio del 1838.
Nel 1840,  per soddisfare le richieste delle sorelle Umiliate, venne costruito l’altare dedicato a Santa Elisabetta sul lato sinistro della chiesa, prospiciente all’altare della Vergine Addolorata.
Nel 1843 si provvide all’ampliamento del corpo di fabbricato esterno alla chiesa, affiancando alla scala altri due vani sovrapposti, da adibirsi rispettivamente a sacrestia e a sala di riunione delle Consorelle. Il verbale di deliberazione precisa che la nuova costruzione venne innalzata  “sopra il pozzo di acqua viva di spettanza del pubblico”.
Dopo un intervallo di oltre vent’anni, nel 1865 si decise la demolizione della vecchia scala per sostituirla con un’altra più funzionale che dà accesso non soltanto ai locali del piano superiore ma anche alla tribuna della chiesa. Successivamente si provvedeva al trasferimento della grande statua  in pietra raffigurante San  Francesco che da tempo immemorabile veniva venerata dalle Consorelle e che era comunemente conosciuta come “U Cec et la CRUSO”. Un verbale del 21 ottobre 1868 attesta che il trasferimento fu direttamente concordato tra il Vescovo di Cuneo Andrea Formica e le Consorelle Umiliate. La statua venne portata a Sant’Antonio e collocata sulla cima della collina sovrastante il Santuario, posto che il Vescovo volle scegliere personalmente.
I due decenni successivi furono interamente dedicati ad una serie di interventi di sistemazione interna. Finalmente i lavori non vennero più lasciati all’improvvisazione, ma inquadrati in un programma organico attribuibile in gran parte al nuovo Parroco impegnato  a promuovere una generale ristrutturazione di tutti i luoghi di culto della parrocchia. Infatti è lo stesso don Giovanni Calandri ad annotare nelle sue memorie: “La prima a muoversi fu la Confraternita di Santa Croce, la quale per essere più centrale e frequentata, non corrispondeva ai bisogni della popolazione, principalmente per la messa festiva. Ebbene  anche essa trovò il mezzo di spendere  altri 12000 lire per provvedere al terreno occorrente per il suo ampliamento, costruendovi il coro di cui difettava, ampliando la chiesa stessa, modificando il loggione che la deturpava e finalmente facendola dipingere ed ornamentale”.
La spesa di 12000 lire  corrispondente a qualche centinaio di milioni in valuta attuale, fu interamente sostenuta dalla Confraternita e fornisce un’eloquente testimonianza del coraggio col quale  i lavori vennero intrapresi e portati a termine nell’arco di tempo compreso tra il 1870 ed il 1887.
Sistemato il tetto in ardesie, l’impresario bovesano Giordano Antonio provvide a rifare la facciata e a rinforzare i muri laterali con pilastri e lesene che arricchì di capitelli e cornicioni. Il presbiterio venne delimitato nella parte anteriore all’altare con una balaustra in legno, e separato dalla sacrestia laterale con una cancellata  in ferro ricuperata dalla tribuna della chiesa  parrocchiale. La decorazione della facciata e dell’interno fu affidata al pittore ornatista Pittavino Pietro. Tutti i lavori di arredo interno furono eseguiti senza restrizioni di spesa, come attestano le relative deliberazioni nelle quali si davano precise disposizioni al decoratore braidese Giusiani Isidoro di fare uso, per la doratura, di “oro puro zecchino di Trino e non di provenienza di Genova”.
In particolare, quando si affidò al pittore monregalese Andrea Vinaj. L’esecuzione dei due quadri laterali all’altare maggiore raffiguranti Gesù che sale al Calvario e la lavanda dei piedi, si ritenne opportuno precisare che dovevano essere grandi e belli
“… in modo che riescano di pregio superiore a quelli che esistono lateralmente all’altar maggiore della nostra parrocchia, dal medesimo eseguiti.” Lo scultore monregalese Cavalier Roasio ricevette l’incarico di eseguire due artistiche statue in legno raffiguranti Santa Elisabetta e la Vergine Addolorata.
Tuttavia agli inizi degli anni ottanta  rimaneva ancora insoluto il grosso problema dell’ampliamento della chiesa sul lato nord-ovest, allo scopo di ricavarne un’abside che avrebbe consentito l’arretramento dell’altare maggiore e la sistemazione funzionale del coro necessario ai Confratelli per il canto degli uffizi.
L’appezzamento di terreno che la Confraternita possedeva fin dal lontano 1742 era insufficiente e soltanto un ulteriore acquisto di parte del cortile retrostante consentì di avviare i lavori nel 1885. Costruita l’abside si provvide alla sistemazione di un nuovo altare maggiore in marmo lavorato dall’artista genovese Vittorio Montazzolo. I banchi a semicerchio, sistemati nel coro retrostante, sono opera del “mastro da legno” bovesano Giovanni Gastinelli. A lavori ultimati la chiesa di Santa Croce , ampliata e completamente rimessa a nuovo, venne solennemente consacrata dal Vescovo Teodoro Valfrè di Bonzo del 1887: a ricordo dell’avvenimento verrà successivamente collocato una grande lapide ancora chiaramente leggibile all’interno dell’ingresso secondario della chiesa.
 
1  oratorio di S. Francesco 1500 c
2  campanile 1672
3  due vani sovrapposti 1823
4  altri due vani sovrapposti 1840
5  nuova scala di ingresso al 1 piano e alla tribuna 1865
6  Abside - coro 1885
 
IL NOVECENTO        (parte 11)
 
Don Calandri era stato prodigo di consigli  e incoraggiamenti a favore della Confraternita perché in cuor suo provava una naturale simpatia per questi cristiani che professavano apertamente la loro fede a dispetto di quel “rispetto umano” che condizionava le coscienze di tanti suoi parrocchiani.
Ma, ciò nonostante, egli era ben consapevole che queste forme di religiosità erano ormai superate dai tempi che esigevano una forte presenza nel sociale e imponevano al laicato nuove forme organizzative. In coerenza con questa sua convinzione aveva infatti dato vita al Circolo Cattolico di San Tomaso, primo embrione di quell’azione cattolica dei giovani, chiamati ad operare nella società civile in spirito di obbedienza alle direttive della gerarchia ecclesiastica. Peraltro l’esigenza di rinnovamento veniva avvertita anche dagli stessi Confratelli che nel 1910 accantonarono il vecchio Statuto, ormai reso illeggibile dall’uso, per adottarne uno nuovo, “adatto alle circostanze dei tempi” ma sempre fedelmente ancorato ai principi ispiratori che avevano determinato la nascita della  Confraternita nel lontano 1505.
Infatti la lettura dei 117 articoli che compongono il nuovo Statuto non evidenzia alcuna novità di rilievo, perché si limitano a recepire le pratiche devozionali affer-matesi nei secoli precedenti e a disciplinare puntigliosamente le cariche interne e i diritti-doveri dei Confratelli e delle Consorelle Umiliate. In particolare non si nota alcuna apertura nei confronti delle altre associazioni laicali cattoliche operanti nella parrocchia. I richiami alla “Autorità Ecclesiastica” sono puramente formali e il ruolo del Cappellano continua ad essere subalterno, in rapporto di dipendenza dal Priore che, tra le varie incombenze, ha anche quella di “dare ordine al Signor Cappellano di annunciare le feste e le funzioni particolari della chiesa, con le indulgenze annesse”. Il nuovo statuto non lascia dubbi in merito: la Confraternita era e continua ad essere una associazione laicale, formata e gestita da laici che intendono regolare in piena autonomia la loro presenza cristiana nell’ambito della comunità parrocchiale.
Sarà un puro caso ma merita di essere rilevato il fatto che il regolamento venne approvato mentre era Priore l’artigiano Giuseppe Ansaldi che pochi anni prima aveva abbandonato clamorosamente il circolo San Tommaso per non sottostare alle direttive del Parroco ed era passato alla Confraternita dove si respirava aria di maggior autonomia. Giuseppe Ansaldi, noto in Boves per aver saputo trasformare la sua bottega artigianale in una affermata fabbrica di compensati, era uno di quei cristiani tutti d’un pezzo che però hanno bisogno di sentirsi protagonisti, costituzionalmente incapaci di operare in spirito di obbedienza. Scaduta la carica di Priore, egli continuò per oltre vent’anni a segnare una presenza attiva nella Confraternita dove, pur ricoprendo la semplice    carica di segretario continuò a mantenere immutata la sua autorità decisionale. Nelle sue memorie ricorda, fra l’altro, di avere notevolmente arricchito l’arredo interno della chiesa e di aver provveduto all’acquisto a Torino di un nuovo “organo meccanico” in contrasto col parere della curia che  pretendeva un organo.
I contrasti con la Curia Vescovile finirono per esasperarsi agli inizi degli anni trenta, quando l’Amministrazione della Confraternita decise  di erigere due nuovi altari. Ma 
lasciammo parlare in proposito Giuseppe Ansaldi: “Venne alla Confraternita una brava persona che intendeva offrire alla chiesa un altare in onore di San Giovanni Bosco, e poco dopo un’altra persona offriva pure un altare a Maria Vergine Ausiliatrice. L’Amministrazione, dopo aver ponderato bene le proposte, accettava l’offerta, tanto più che l’addetto all’Uffizio d’arte di Cuneo aveva dato il nulla osta.
La Curia Vescovile, venuta a conoscenza di ciò, voleva come per il passato che noi versassimo i fondi colà, da dove si sarebbe provveduto direttamente. Non così la pensavano l’Amministrazione e i due offerenti che accollarono a me il disimpegno della pratica con la Curia: i due altari venivano costruiti subito…La Curia allora mi chiamò a rapporto e dopo avermi rimproverato per la mia condotta che non era conforme ai loro desideri e alle loro pretese, minacciò di ritirare il Cappellano, cosa che  subito venne fatta. Allora io, stanco di sentirmi così trattato, difesi con calore l’operato dell’Amministrazione, manifestando la mia meraviglia per l’opposizione fatta verso un’Amministrazione che null’altro aveva cercato se non il bene della Confraternita e feci loro vedere, che, anche senza il Cappellano tutto procedeva bene.
Queste affermazioni di orgogliosa difesa dell’autonomia di decisione sintetizzano abbastanza fedelmente i motivi contingenti che avevano determinato lo stato  di tensione fra la Confraternita e la Curia Vescovile, ma non colgono le ragioni di fondo di una contrapposizione così aspra. Tali ragioni andavano difatti ricercate in una norma del Concordato tra Stato e Chiesa, in base alla quale – come precisava una circolare del Prefetto di Cuneo datata 14 marzo 1930
- “le Confraternite aventi scopo esclusivo e prevalente di culto devono passare alla dipendenza dell’Autorità Ecclesiastica per quanto riguarda il funzionamento e l’Amministrazione”.
Viste in questo Contesto le limitazioni poste dalla Curia Vescovile di Cuneo in merito all’erezione dei due altari assumono la valenza di atto obbligato che, in quanto tale, poteva essere accolto dai confratelli, se non con spirito di obbedienza, almeno con maggior comprensione. Ma trovandosi in oggettive difficoltà per riuscire a capire queste alte ragioni di Stato, i Confratelli si compattarono in posizione frontale, si chiusero in una difesa ostinata di  quelle prerogative di autonomie che erano state loro riconosciute per oltre quattro secoli.
 
 
 
TRAMONTO DELLA CONFRATERNITA      ( parte 12)
 
Vista l’inefficacia dei richiami ufficiali e constatata l’impossibilità di pervenire ad una composizione amichevole della vertenza, la Curia Vescovile, richiamate le disposizioni del Diritto Canonico e l’articolo 29 del Concordato, con Decreto  16 marzo  1934 dichiarava sciolto il Consiglio di Amministrazione e nominava il Reverendo don Stefano Baudino “ Rettore della  Chiesa, Direttore e Cappellano con delega dell’intera ed esclusiva amministrazione e della  Confraternita”. Il passaggio delle consegne tra gli amministratori esautorati e il nuovo Rettore, “per consiglio del Signor Podestà maggiore Pasquale Morabito” ebbe luogo nel palazzo comunale.
 Nel mese di novembre, un ulteriore Decreto della Curia stabilì che l’Amministrazione della Chiesa doveva essere separata da quella della Confraternita
e che quest’ultima doveva essere gestita da un Consiglio composto dal Cappellano, dal Priore, da un vice priore e da due massari.
Passata la burrasca il Vescovo Monsignor Giacomo Rosso il 7 giugno 1937 volle procedere personalmente alla consacrazione dei due nuovi altari dedicati a San Giovanni Bosco e a Maria Ausiliatrice.
Dopo la solenne funzione il vescovo passò a fare visita al Rettore degente a letto per una grave malattia. Don Stefano Baudino  morirà poco tempo dopo, disponendo per un lascito grazie ala quale la Confraternita potrà estinguere il debito contratto per la costruzione dei due altari.
Fu chiamato a succedergli don Matteo Bianco, un prete  ormai avanti negli anni, che dovette assistere al diradarsi delle file dei Confratelli richiamati alle armi e dispersi sui vari fronti di guerra.
Le tensioni si assopirono; il Consiglio si riuniva raramente senza  neppure preoccuparsi di redigere i verbali; trascurando ogni formalità gli incarichi direttivi venivano rinnovati di comune accordo tra gli Amministratori uscenti ed il Cappellano.
A guerra finita si dovette amaramente constatare che non si notavano segni di ripresa. I reduci dovevano rimboccarsi le maniche per ricuperare gli anni perduti, mentre i giovani più sensibili alle problematiche religiose trascuravano le vecchie Confraternite per cercare motivazioni di impegno nell’Azione Cattolica, nel sindacato, nelle ACLI o direttamente nella politica.
Alla morte di Don Bianco fu chiamato a sostituirlo il sacerdote don Giuseppe Baudino di origine bovesana e proveniente dalla cappellania di tetti Pesio. L’ingresso venne fissato per il 21 settembre del 1952, ricorrenza della Vergine Addolorata ed i confratelli si prodigarono per un’accoglienza festosa, con luminarie, banda musicale e sparo di mortaretti. Il nuovo cappellano si conquistò subito l’unanime simpatia della popolazione non solo per il suo inappuntabile servizio in Confraternita, ma soprattutto per la sua modestia, il suo spirito di preghiera e per la particolare sensibilità verso tutti i malati della parrocchia.
Il numero degli iscritti alla Confraternita, uomini e donne, continuò a diminuire  ma ciò nonostante, erano sempre numerosi i bovesani che sensibili al richiamo della campana affollavano la chiesa di Santa Croce per la messa domenicale. Per la verità si trattava di fedeli un po’ particolari, composti in gran parte da bottegai, esercenti ed artigiani desiderosi di adempiere al precetto festivo senza perdere troppo tempo, e da tanti altri bovesani che normalmente vivevano un po’ ai margini della vita parrocchiale. Normalmente le donne occupavano i banchi disposti nella navata della chiesa; gli uomini preferivano le sacrestie laterali, mente i confratelli prendevano posto al coro retrostante l’altare maggiore. Mentre il sacerdote officiava la messa in latino le Umiliate recitavano le loro “coroncine” ad alta voce e i confratelli cantavano con fervore gli Uffizi, determinando nella chiesa un’atmosfera indefinibile nella quale l’intesa e sincera pietà religiosa dei fedeli si smarriva in una sconcertante confusione. Il  parroco don Serafino Arneodo sopportava pazientemente questa situazione, ma altrettanto pazientemente cercò di convincere le Umiliate e i Confratelli a lasciare adeguato spazio alle preghiere liturgiche durante la messa. Nel corso di un’apposita riunione consigliò ai primi “di anticipare l’orario  dell’ufficiatura quanto basti per terminare i canti dei divini Uffizi al Vangelo, per consentire successivamente ad una consorella di “guidare le preghiere liturgiche”.
Purtroppo, stando a quanto scrive don Baudino, i consigli rimasero lettera morta, finché il 26 dicembre del 1957, nella sala della Confraternita, il Rettore pregò la ventina di confratelli presenti all’adunanza di volersi astenere  a quella che era la volontà del Signor Pievano. Nessuno diede segni di opposizione e qualcuno diede segni di assenso. Purtroppo  però la domenica 5 gennaio 1958 nessuno si presentò in coro pel canto all’infuori dei quattro ufficiali in carica: Priore, vice Priore e i due massari. E questa defezione segnò, di fatto, la fine della Confraternita di Santa Croce.

Tratto da:”Il Giornale di Boves” gennaio 1993  -  a cura del Prof. Mario Martini

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